Nota sul «Canzoniere» di Saba (1946)

«Letteratura», a. VIII, n. 3, Firenze, maggio-giugno 1946, pp. 103-111; poi – con il titolo Il Canzoniere di Saba – in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

NOTA SUl «Canzoniere» di Saba

L’edizione 1945 del Canzoniere di Saba è un chiaro invito a giudizi su di un’opera che sempre meglio risponde alla nota impressione di unità, di continuità quasi di poema o, proprio petrarchescamente, di canzoniere.

Nel ’21 Pancrazi scriveva a proposito di un primo canzoniere: «Non sono molti i poeti che radunando oggi in un volume solo la loro fatica di vent’anni riuscirebbero a dare quell’impressione di unità e di fedeltà a se stessi, che è invece uno dei caratteri del canzoniere di Saba»[1], e piú tardi altri insisteva su di una specie di espressione continua, a blocco (Ravegnani). Naturalmente è facile notare che tale continuità è aiutata dalla persistenza di immagini anche ambientali (in senso lato la triestinità di Saba) e da un autobiografismo che però va facendosi, verso l’ultimo, piú segreto e sempre meno discorsivo. Ma la continuità che ci colpisce adesso non è indiscriminata o puramente psicologica: risulta da un atteggiamento costante, da un nucleo essenziale e dal suo storico reagire, dal suo svolgersi senza colpi, in larghi momenti che lo stesso poeta ha saputo indicare con la tripartizione del suo Canzoniere. Un atteggiamento essenziale non tanto di «delusa saggezza» (Solmi), né di puro e spassionato spettatore («la mia forza: guardare ed ascoltare»), quanto di attenta ricreazione in una interna solitudine non spietata e non edonistica del ritmo vitale nella sua quotidiana verità e poesia (tanto piú poetico quanto piú sincero e nudo, ma senza gusto di crudezza): ricreazione secondo misure di canto senza esaltazione sensuale, senza accesi riferimenti immaginosi, secondo un petrarchesco gusto di variazioni e di «disacerbare il duolo», lontano da ogni retorica catarsi. Sciogliere il dolore (o meglio la pena) del vivere in figure di canto, trarre dal ritmo vitale il suo passo piú lieve, il suo colore meno chiassoso, il profilo delle vicende piú essenziali, meno artefatte, e farne motivo, guida di musica: quella musica che anche nelle Fughe nasce da voci, da figure di vita, di segreta esperienza. Da questo punto di vista, non autobiografia minuta e sentimentale, ma vicenda del ritmo vitale particolarizzato e personalizzato in figure e canti, in musica di voci, in profondo accordo di «parole». Donde un accento che sostanzialmente non cambia nelle sue cadenze attutite, nel suo contenuto di silenzio, nella piú dolce figura di canto, nel suo repertorio di entità poetiche, di miti, di nomi-appoggio in cui una simpatia di contenuto ardore caratterizza ed evidenzia i suoi intimi moti. Certo un impegno compromesso sul limite di una forza poco espansiva, e sul controllo attentissimo di chi raramente si disperde in tentativi rischiosi per la sua salute di creatore, qualcosa che simpatizza con temperamenti piú scialbi, ma ugualmente misurati e felici nella loro misura: quasi la tenue sincerità e fortuna di un Pindemonte controllato sull’eco della potenza foscoliana.

E tutto lo sviluppo di Saba verifica nelle sue diverse accentuazioni di canto, di figura perfino a volte oleografica, un atteggiamento di aderenza alle cose essenziali che non è solo un «guardare», di coscienza non impressionistica del ritmo vitale che dà, nei limiti di potenza fantastica, un diverso tono di serietà a quella che potrebbe sembrare un semplice edonismo di colori, di parole. C’è sí un certo tono felice, gustato, ma come soluzione in canto di una coscienza della realtà che non si ignora e che dà invece proprio al canto le sue linee poco rapide, attente, a loro modo analogiche. Perché, quando si nota la modernità di Saba pur nel suo originale rispetto delle forme chiuse tradizionali e nella possibile traducibilità discorsiva della sua musica, che paiono imparentarlo con stagioni letterarie piú lontane, si deve ricordare che la sua lettura esige in realtà una richiesta non diversa da quelle dei nostri contemporanei e che le sue trame di parole, il suo apparente «discorso», valgono in realtà non narrativamente o decorativamente (sí che la sottile grazia neoclassica di certe sue volute poetiche non indica un semplice gusto di fregio), ma proprio come allusione, come analogia di sensi segreti ed assorti: il che elimina, almeno come giudizio assoluto, e non come ammissione di residuati e di scambi durante l’operazione poetica, l’accusa di crudo autobiografismo e quella di oggettivismo ingenuo e piatto. Il pericolo c’è, e forte, di appesantimenti, di deviazioni, di scambi, tra l’uso sottile e funzionale di elementi autobiografici, di dati-ricordo per una costruzione di figura di canto, e il bruto surrogato di quadri, sentimenti, oggetti romanticamente ed ingenuamente sperati come automaticamente poetici, ma ciò, se porta entro le singole poesie a giuste distinzioni e rifiuti, conferma la tipica difficoltà della poesia di Saba che troppo spesso è parsa un’espressione canora di «poesia ingenua».

Quella segnalazione della importanza della Brama già fatta da Gargiulo[2] ed estesa a indicazione di un motivo segreto psicanalitico in Saba, se non importa naturalmente un’assurda applicazione freudiana in poesia (culturalmente l’incontro triestino Freud-Svevo deve essere calcolato in un esame di Saba, e chi non sente la segreta simpatia, proprio in motivi di «brama» che corre fra certi personaggi sveviani tra le sue giovani figure femminili «come prede esposte» e le fanciulle sabiane?), serve certamente a chiarire l’atteggiamento del poeta e il suo metodo tipicamente moderno, tutt’altro che tradizionale: canto di voci elementari ed essenziali, liberazione di «pene» in ritmi non sovrapposti di canto, di figura, di musica, in proporzioni tanto piú limpide quanto piú nutrite di quella esperienza disadorna, non intellettualistica, elementare e poetica nella sua nudità. Si pensi alla dichiarazione giovanile (in Trieste e una donna) Il Poeta:

L’ora del giorno e le quattro stagioni,

un po’ meno di sole o piú di vento,

sono lo svago e l’accompagnamento

sempre diverso per le sue passioni

sempre le stesse.

Questa aderenza ad alcune passioni essenziali (e si può dire come, dopo il trionfo sensuale dannunziano, questa elementare mitologia erotica sia fondamentale nella sua poetica castità come distacco, sia pur velato di contatti estetistici, dalla fin de siècle prepotente e retorica), che nel primo Saba è piú patinata di edonismo

(il poeta ha le sue giornate

contate,

come tutti gli uomini, ma quanto,

quanto beate),

si farà a poco a poco piú cosciente della sua validità poetica e degli adeguati mezzi espressivi, ma costituirà sempre il fulcro della poetica sabiana. E a parte la precisazione indicativa di una aderenza alla vita in funzione di «brama», questo senso di amore e tristezza della vita, questa attenzione mai retorica e mai di pura curiosità, traducendosi in colori, ritmi, parole, che dicano quest’oscura e sicura fermentazione interna nel suo rilievo meno esaltato e piú capace di farsi visione e linea, è il nucleo che Saba sempre meglio precisa ed adegua con un procedimento di prove, di esercizi che si propongono nel primo momento, nella prima parte, che l’autocritica di Saba ha ben distinto fino alle soglie di Canzonette, fino a levarsi sicuro dell’incantevole voce:

Da te, cuor mio, l’ultimo canto aspetto,

e mi diletto a pensarlo fra me.

Un primo momento in cui urgono anche, per chi sa ben distinguere esperienza da passiva eco, le presenze di voci poetiche diverse che già la critica ha segnalato (De Robertis[3]) e che si potrebbero facilmente aumentare come diretta e indiretta vicinanza al mondo poetico dell’Ottocento e del primo Novecento, particolarmente sulla direttiva dei crepuscolari dal cui armamentario (e del loro confluire Pascoli-Poema paradisiaco), Saba ha risentito espedienti ed offerte lessicali. Ma proprio in certi tratti meno risolti letterariamente, in certi errori e stonature, in certi ritmi improvvisamente diversi, questa poesia apparentemente poco rivoluzionaria mostra il suo volto fin dalle poesie dell’adolescenza, fin dai troppo celebrati «versi militari». Sono mosse di favola poco evanescente

(dall’avversario in forma di barbone...

mi giungeva e l’odore della cena...

Un gallo cantò, altri risposero qua e là...

di troppo ebraico, di troppo panciuto,

di troppo lamentosamente impuro),

o sono primi abbozzi di vicende poetiche, di figure tipiche dell’antidescrittivismo sabiano, come In cortile. Si pensi poi in Trieste e una donna a Tre vie e si vedrà come la poesia di Saba ha trovato soprattutto quell’aria in cui si immergono le sue entità poetiche, quell’aria che è piú di un paesaggio descrittivo e che non è una vaga atmosfera, immedesimata com’è con i miti coloriti, col loro muoversi giovanile a ritmo di folata:

o, vestito di blu,

un garzone con una carriola,

che a gran voce si tien la strada aperta,

e se appena in discesa trova un’erta

non corre piú, ma vola.

Acme di questo primo periodo (predominio delle figure), che, dopo alcuni inviti poco raccolti ad una specie di vicinanza ungarettiana in Cose scritte durante la guerra, è ottenuta con un’aggiunta piú chiara di canto, con un alleggerimento interno che toglie certo peso di documento. Ed è la stessa poetica di Cose leggere e vaganti, in cui la levità del ritmo era un invito al predominio del canto con cui si inizia il secondo periodo (1921-32).

La vita è cosí amara,

il vino è cosí dolce,

perché dunque non bere?

Predominio del canto che giustifica persino un uso piú frequente di forme antiche in un impasto in cui le parole valgono piú nella loro suggestione sonora che nel loro riferimento a testimonianza di realtà (osservazione che si può ripetere per le Fughe): ma pure qui – si pensi a Chiaretta in villeggiatura – non si è affatto abbandonato quell’equilibrio tra immagine e sentimento di cui parla De Robertis («con una facoltà favolosa di dare alle cose – città, strade, marine, campagne – quasi l’aspetto di creature e alle creature l’oggettività delle cose»), che giuoca anche nei riguardi del canto assunto come protagonista di questa poetica, come freno in Autobiografia, Prigioni (è azzardato suggerire per questi come accenno di giustificazione, a un procedimento dei sonetti rilkiani?) e piú tardi in L’uomo e, a suo modo, nel Piccolo Berto, con un eccesso di descrizione di sentimenti. E dopo le rivelazioni piú decisive di Cuor morituro (La Vetrina, La Brama), Preludio e Fughe segna l’acme del secondo momento con un’ambizione alla musica in cui le voci sublimano la facoltà di figure e di canto su temi di esperienza vitale fatta non piú astratta, ma piú aerea, non priva di miti (la fogliolina e la fresca vernice della ottava fuga), ma piú luminosi, piú depurati. L’abbondanza di movimenti diversi, la lentezza evocativa che si avverte entro i ritmi pur compatti e chiusi, indicano una volontà di distacco dell’essenziale posizione sabiana da forme di realizzazione piú particolari verso una sorta di poesia della poesia, di secondo grado piú risolto, piú alto e non certo una possibile deviazione pretenziosa e vacua. Proprio là dove il lettore inesperto si sconcerta e si turba perché svanisce la piú facile equivalenza discorsiva, e l’equivoco di un fiabesco autobiografico, piacevole e ornamentale (equivoca fortuna che non è mai giustificata dalle piú intime ragioni di ogni componimento di Saba), si tocca uno dei punti di naturale arrivo di questa lirica, tale anzi da rispiegare a ritroso la strada del poeta e da confortare chi ha indagato la radicale identità di tendenza alla musica attraverso le figure e i canti, e di rilievo di una esperienza antiretorica, esistenziale. Ché non si spiegano altrimenti versi cosí leggeri e sostanziosi, cosí analogia assoluta di condizioni interne già «signatae»:

Se baciarmi sulla bocca

fosse lecito a un mortale,

proverebbe un senso, quale

della morte è forse il gelo:

tanto azzurro è in me di cielo,

tanto in me brucia l’amore.

Ben piú che nelle Canzonette qui la vastità musicale dà luogo a movimenti essenziali e vi trova il suo centro piú che in appoggio di figure o di inizi di canto fisico (e una superiore letizia e una superiore mestizia si incontrano in linee di melodia):

D’un tempo

alle lacrime torno ed al sorriso.

Ucciso

forse ho il triste pensiero a me funesto

sí lungamente? Non è, ahimè!, che questo

che la vita mi fa sí dolcemente

amare?

Il terzo momento nasce cosí da un concentrarsi (e in parte dal decadere) di questa musica:

Parole

dove il cuore dell’uomo si specchiava

– nudo e sorpreso – alle origini.

E non è tanto in Parole che il nuovo fare poetico si svolge, quanto nelle poesie che costituiscono Ultime cose e in cui gli accenni

(Un uomo si avventura per un lago

di ghiaccio, sotto una lampada storta...

Ti scoprirono insieme occhio di gelo)

che potrebbero apparire anche come sosta ed attesa dopo lo sforzo di Preludio e Fughe, si fondono in una poetica che caratterizza l’attività dell’ultimo Saba.

Nell’attività poetica che va dal ’35 al ’45 (Ultime cose, 1944, Varie) Saba appare indubbiamente piú attento e vicino ai modi essenziali della poetica contemporanea. Sempre piú libero da possibili colorazioni crepuscolari di primo Novecento, sempre piú fuori dal pericolo di scivolare dal canto in accenni di cadenza abbandonata, dolciastra (sia pure con tutte le ragioni positive che nascono e si affermano su quel limite), il Saba di Ultime cose tende con una chiarezza inequivoca ad una espressione piú stretta, piú essenziale, meno distesa. È l’accentuazione dell’esperienza di Parole (ed abbiamo visto quale importanza non casuale abbia quel titolo per la poetica sabiana) con una maggiore presenza di autocritica, enunciata già nella poesia di Preludio.

Or dissodo un terreno secco e duro.

La vanga

urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo

profondo, come chi cerca un tesoro.

Perché se questo «secco e duro» si riferisce alla vita dell’uomo non piú giovane, e risponde al tema sabiano della facile vita del giovane e del gelo che assidera gli anni maturi (donde il mito del vecchio – rinchiuso nei provvisori tepori del sole o del cibo –), la traduzione in poetica è operata già nel lessico non piú elementare, ma piú scabro, nel fare piú distaccato, piú assorto che piú facilmente s’intona alle cadenze contemporanee e specialmente a quelle del poeta che Saba, pur nell’essenziale diversità dei due nuclei originali, può sentire piú vicino in una cultura ideale, in un senso vitale di serietà poco declamatoria, di sobria contemplazione della realtà, dell’avaro margine della felicità: Montale. Sí, vi sono anche pause, silenzi, versi scanditi in soluzioni prevalentemente di valore fonico, che accennano ad un côté Ungaretti

(a te nei sogni

rivivo, a quando a quando, di notte)

e che pure derivano, con un forzamento piú preciso, da lontane origini del tutto sabiane, ma soprattutto la vicinanza che ci illumina non su di un assurdo tradimento di Saba a se stesso (pochi poeti conosciamo cosí fedeli alla loro parola iniziale, cosí modestamente risoluti nella propria originalità), bensí circa una localizzazione della poetica di Ultime cose in termini anche culturalmente precisi, è quella di Montale, del Montale dei primi Ossi di seppia per questo senso di amarezza e di leggero allibimento metafisico (ma è chiaro come il fondo di Saba reagisce e svolge queste direzioni a contorni piú rilevati, in toni di fantasia piú pacata); e, piú in lontananza, del Montale di Occasioni per certo fremito che viene immesso nel canto sabiano

(di stornelli frenetici a emigrare...

Sotto il cielo coperto è volta l’ansia

di tutti ad una raffica, alla prima,

che sbatterà le tende lungo la riva),

per certo riscatto finale che, originalissimo in Saba, diventa in queste ultime poesie piú perentorio, avvicinandosi cosí a quella forma tipicamente montaliana, bene indicata dal Contini, di soluzione di un turbamento nella sicurezza di un oggetto:

E nello schianto

del vetro alla finestra è la condanna...

Paradiso perduto, che rifugge

l’occhio che piú l’amava, è il bel tappeto...

Ed alla sete

acqua d’anice tinta era il ristoro...

E mi ricorda una casetta, sola

fra i campi, che fumava per la cena...

Dove, come è ben evidente, siamo passati da un esempio di maggior vicinanza e di soluzione, agli ultimi due, in cui torna il gusto piú normale di salvezza nel colorito ricordo, in figura di dolcezza, a volte perfino fiabesca. Cosí in questo gusto non certo eterogeneo e inaspettato, ma apparso piú nuovo per una rivelazione dall’intimo di spunti già esistenti e coerenti, la poesia si contrae in accenni brevi, in movimenti raccorciati, in ritmi piú staccati anche nel naturale placarsi in canto:

La bocca

che prima mise

alle mie labbra il rosa dell’aurora,

ancora

in bei pensieri ne sconto il profumo.

O bocca fanciullesca, bocca cara,

che dicevi parole ardite ed eri

cosí dolce a baciare.

Il tipico svolgimento di fiaba umana, di vicenda cosí abusato nel primo Saba o nel Saba de L’Uomo, si riduce, sulla linea ,della poesia matura, da Canzonette in poi, a uno scorcio piú incisivo e la forza suggestiva delle parole si trasferisce prevalentemente da colore psicologico, misura di canto, ad accentuazione sulla parola chiave:

i morti amici, le morte stagioni.

La forza delle figure decade, pare lentamente oscurarsi

(al giovane che il suo corpo modella

nel segno sotto cui nacque, severo),

perdere quella limpidezza che rende miti soavi le fanciulle, i ragazzi in corsa, la modellina sabiana. (Perché La Modellina non compare in Canzoniere?) E al suo posto prevale un certo aggrovigliamento di immagini o di accenni di immagine che pare indicare volontà di un disegno insieme piú complesso e piú sommario, piú abbreviato, in cui le «cose leggere e vaganti» si infoltiscono, quasi incupiscono in un’aria piú severa, in una sintassi poetica piú concisa, piú allusiva nell’interno delle parole che non nell’accento di canto e nell’evocazione di colore:

Chi vi guarda

– verdi sotto una nera ascella frondi

spuntano; alcuni rami sono morti –

le vostre dure sotterranee lotte

non ignora: la vostra pace ammira

anche piú vasta.

E a voi, ritorna, amico;

laghi d’ombra nel cuore dell’estate.

Proprio la morfologia della immaginazione sabiana, pur cosí fondamentalmente fedele al nucleo ispirativo, tende a modificazioni di misure che vanno al di là di certe apparenti difficoltà perifrastiche e discorsive che formano nel Saba piú noto un lato della sua cosiddetta prosasticità. Qui – e i versi citati dalla poesia Alberi sono molto chiari in proposito – l’immaginazione sabiana si assesta con una certa fatica, con una volontà di visuali profonde, di scorci quasi magici, con una forzatura di immagine che insiste nella parola, confida in una allusività pregnante e radicale, immerge i germi fantastici in un’atmosfera come piú lontana ed assoluta di quella in cui nascono indimenticabili voci di Canzonette, Figure, Fughe.

Ma anche qui le ricerche nuove non possono certo prescindere dalle tendenze interne piú forti ed anzi si sforzano di adeguarvisi e di attrarle in una mediazione esercitata soprattutto da quel canto di slargo, di abbandono, piú volte notato, che finisce per prevalere, reso piú suggestivo e variegato, superando anche le accentuazioni ritmiche piú scandite, staccate:

laghi d’ombra nel cuore dell’estate.

Come, se leggiamo Sera di febbraio

(Spunta la luna.

Nel viale è ancora

giorno, una sera che rapida cala.

Indifferente gioventú s’incontra,

sbanda a povere mete.

Ed è il pensiero

della morte che, in fine, aiuta a vivere)[4],

nella volontà di magia allusiva, di incontri piú radicali e profondi senza i passaggi di discorso comune che altrove rappresentavano il gusto di una semplicità di canto e di figura aderente al modulo di espressione piú istintivo e modesto; si deve notare come quella specie di sentenza finale – ma in realtà un’immagine anch’essa ed un moto di triste rasserenamento che simpatizza con le tenui notazioni precedenti – è sempre il risultato di un pensiero che nasce dal canto, che si rivela nel canto e aspira coerentemente a vibrare come nota di canto pacato, rallentato, poco fremente tanto da ricercare pause, intonazioni di discorso comune:

ed è il pensiero

della morte che, in fine, aiuta a vivere.

Si sente cioè, nella maggior vicinanza ad altre forme poetiche contemporanee (avvenuta non certo per adesione esteriore, ma per intima modificazione in una generale atmosfera di cultura), il perché originale di una evoluzione coerente anche nella sua fase piú nuova e meglio si rivela in questi risultati estremi l’intrinseco valore di un’attenzione disadorna al vivere e al suo sottile giuoco di vicende sensibili, di appelli e risvegli di una dolente e vitale «brama». Cosí lo stesso passaggio dell’ultima sentenza dalle immagini precedenti, anche se piú volontariamente pausato come in un attacco piú fondo e meditato, può ricordare altri attacchi apparentemente piú in superficie, piú discorsivi, piú risolti in quanto tali nella salvezza del canto:

Non ama il vecchio la tomba: suprema

crudeltà della sorte.

Quel canto che, fatto come piú accorto dei propri mezzi e quindi come piú sospettoso e cauto, torna anche in Ultime cose a tentare quegli impasti affascinanti di canzonetta e di nuovo ritmo piú perentorio ed assorto:

La rossa foglia morta

che il vento porta via,

il vento e lo spazzino,

sotto il fulgido cielo cadde, insanguina

con le altre la via –

imiterei. Per nausea

delle parole vane,

dei volti senza luce.

Ma la tua voce, o gentile, mi parla;

fa che non cada ancora.

Quel canto ha acquistato un tono piú assorto e lontano, una maggiore ricchezza di echi fondi, con minore capacità di ripercuotersi in colore, in passi di figure.

Piú concentrato in equivalenze di immagini piú dense

(brilla come un ghiacciuolo l’odio),

in disposizioni di parole piú sostenute

(il tuo bacio che assenze

fanno, e pietà di noi stessi, piú raro),

in accenti anche psicologici piú distaccati di decisione amara:

Ma non v’entri tu, né alcuno

che con te sulle tue orme vagava...

Paradiso perduto, che rifugge

l’occhio che piú l’amava...

Dissipati certi toni eccessivamente dolciastri e sciapi (residuo, precipitato di toni positivi sabiani), l’ultimo Saba con il suo fare piú meditato e piú essenziale ci pare concludere, con poche possibilità di altre modificazioni fuori di questa linea coerente, il Canzoniere nella sua vita unitaria e aggiungere una conferma di estrema serietà ad un canto che nei suoi limiti di respiro ci offre un conforto di validità e di sincerità poetica ed un esempio alto, non pomposo, di fedeltà letteraria.


1 P. Pancrazi, Scrittori d’oggi, I, Bari, 1946, p. 162.

2 A. Gargiulo, La letteratura italiana del Novecento, Firenze, 1940, p. 160.

3 De Robertis, Scrittori del Novecento, Firenze, 1940, pp. 27-30.

4 E sarà ovvio sottolineare la cura di spazi, di pause certo piú accentuata graficamente, ma cosí naturale in Saba, cosí coerente, piú che con ricerche tecniche, con il suo stesso ritmo vitale di osservazione, di ripensamento.